Quando c’era la pandemia avrei ucciso qualcuno – faccio per dire – per tornare alla vita di sempre. Mi mancava persino il convoglio della metropolitana di Milano pieno all’inverosimile, nelle prime ore della mattina. Quei convogli stipati di umanità catturata dagli smartphone, ancora carica di sonno, con forte propensione a evitare docce e pulizie personali, a giudicare dalle puzze che entravano nelle narici. Odori forti, che avrebbero fatto la gioia del protagonista di “I mnemagoghi”, racconto minore di Primo Levi, dove un vecchio medico, ormai prossimo alle ombre della morte, raccoglieva in preziose boccette smerigliate gli aromi della vita sfuggente, dal legno verniciato dei banchi di scuola alla pelle incipriata della sua prima, e forse unica, donna. La pandemia è finita da molti mesi, ma la prudenza che mi ha instillato – rarefazione di relazioni, fastidio per il chiasso degli assembramenti umani – persiste. “Fai almeno, per quanto sta in te, di non sprecare la vita in inutili commerci, fino a farne una stucchevole estranea”, scriveva il poeta greco moderno, Kostantin Kavafis, dalla sua quasi quarantena volontaria ad Alessandria d’Egitto, nei primi decenni del Novecento. Prima della pandemia non capivo che cosa significasse, e ascrivevo all’umore nero del poeta, forse a una sua depressione profonda, il suggerimento da misantropo. Ecco, ora che mi aspettano otto persone in pizzeria – un raduno di ex colleghi, scovati in Facebook, con i quali parleremo di nulla, o se va bene si faranno pettegolezzi volatili – penso che sia un inutile commercio, mischiare fiati e risate (stentate), ricordi e bugie. Così come non impazzisco all’idea, domani sera, di sedermi in teatro a vedere uno dei tanti maltrattamenti dei classici, non ricordo neppure se “Le nuvole” di Aristofane o “Tanto rumore per nulla” del bardo Crollalanza (in questo modo qualcuno, durante il Ventennio fascista, avrebbe voluto portare in italiano il cognome Shakespeare). Mi tenta di più, dopodomani, prendere il Frecciarossa per Napoli, città complicata, ricca d’arte e disperazione, dove un amico mi aspetta per raccontarmene rughe e segreti. Sarà il primo treno preso dopo la pandemia.
Oddio, è tardi! Ho dormito un’ora in più, ma non importa, tanto in reclusione, o lockdown, si può stare a letto quanto si vuole. Ma che cosa stavo sognando? Che non mi piaceva il mondo dopo la pandemia? Addirittura? Ma stavo sognando o è finito tutto? Aspetta che controllo, guardo dalla finestra. Nessuna macchina, silenzio, un autobus svolta nella piazza. E laggiù, ora guardo bene, gente distanziata, tre o quattro persone, in mascherina! Forse è meglio che torni a dormire, magari riacchiappo il sogno.